E’ al cinema da questi giorni, distribuito da Good Films, Non essere cattivo, il film postumo di Claudio Caligari (scomparso il 26 maggio 2015 a 67 anni) che ha esaltato e scosso la platea della 72.ma Mostra del Cinema di Venezia dove è stato presentato fuori concorso. Un apologo morale, duro e commovente, sulla periferia e sugli ultimi, in una storia di degrado tossico e insieme di umanità profonda che si richiama deliberatamente al modello pasoliniano e insieme lo reinterpreta con straordinario talento. Un peccato che questa consacrazione sia avvenuta post mortem, quando ormai il suo autore non c’era più.
Tra le tantissime recensioni elogiative del film, pubblichiamo due schede di Gianmaria Tammaro e di Gianfranco Cercone.
Il cinema di cui c’è bisogno
di Gianmaria Tammaro
www.wired.it – 9 settembre 2015
Per scrivere libri, devi leggeri libri. E per girare film, devi guardare film. Funziona più o meno così. E di film Claudio Caligari ne guardava tantissimi. Nell’intervista che ha rilasciato a Christian Raimo (e che, sul serio, vi consiglio di andare a recuperare su www.internazionale.it del 15 novembre 2014), Caligari cita, elenca, critica e analizza pellicole su pellicole, titoli su titoli, e ammette che il cinema, arte, l’ha salvato (o quello o le Brigate Rosse) e che il cinema, luogo fisico, era dove, da giovane, passava tanto tempo. E quindi è naturale, quasi scontato, che i film di Caligari siano buoni film; ma in Non essere cattivo, vuoi perché è l’ultimo, vuoi perché, davvero, ci arriva in uno stato di grazia, il regista supera se stesso. Caligari cita Caligari, ruba da Caligari, e fa anche meglio. Alla fine di Non essere cattivo uscirete dalla sala sconvolti, scossi e soprattutto commossi, e potrete dire: ho visto un film.
C’è un altro passaggio nell’intervista che Raimo ha fatto a Caligari piuttosto importante: quello dove il regista racconta il “suo” Pasolini. Che torna anche qui, in questo film (la citazione ad Accattone, con uno dei due protagonisti che prende il nome di Vittorio, è piuttosto evidente). C’è il racconto, anch’esso pasoliniano, degli ultimi. C’è un cinema che fa l’anti-cinema, nel senso che è qualcosa che non troveremmo altrove: Caligari non è Sorrentino, non è Moretti; non è il cinema (d’autore) a cui siamo abituati. È altro, è molto altro – è la vita così com’è, è lo schifo della strada ed è la bellezza commovente dell’amicizia, un’amicizia quasi fraterna, non eterna, ma immemore.
Grazie alla sceneggiatura scritta a sei mani con Francesca Serafini e Giordano Meacci, Caligari ci regala una storia intensa, appassionante, narrativamente perfetta: con i suoi alti e i suoi bassi, le sue parole ritornello, e la sua musicalità, tanto che diventa un piacere anche solo ascoltarlo, questo film. I due attori principali, Luca Marinelli e Alessandro Borghi, sono incredibili. Magri, ossuti, i volti scavati e gli occhi quasi fuori dalle orbite. Borghi, che interpreta Vittorio, ricorda l’Ewan McGregor di Trainspotting, e il profilo di Marinelli, che invece è Cesare, auto-citazione del regista al suo Amore Tossico, si fa affilatissimo in alcune inquadrature: un naso che è una lama e un mento puntuto come uno spillo. I loro sguardi e le loro espressioni sono magnetiche, anche qui: basterebbero loro due e il film, già così, sarebbe ottimo. Poi ci sono Silvia D’Amico e Roberta Mettei, Viviana e Linda, le donne: tutte e due alla ricerca di qualcosa (della sicurezza, di un uomo, dell’amore), e tutte e due tormentate (dall’uomo che alla fine trovano, soprattutto): due madri e due ragazze, la sensualità dei gesti e la dolcezza, quella su tutte, delle parole.
La storia è una storiaccia, nel senso che racconta dell’ultima, e a modo suo prima, umanità: i tossici, gli scippatori, i delinquentelli di quartiere. Siamo ad Ostia, nel 1995. La prima scena è un’altra citazione (ricordate? Caligari che ruba a Caligari), e subito ci si commuove: andate al cinema e guardatela, le parole non le renderebbero giustizia. Poi c’è un crescendo narrativo, dettato dalla droga e dalle allucinazioni, dai giri in macchina, da una fotografia pulitissima e, allo stesso tempo, perché il film è in parte ambientato di notte, nera, scura: un’ombra. Vittorio ne vuole uscire, perché conosce Linda; Cesare, invece, ci è dentro fino al collo e non lo sa; è convinto di essere più forte, di non finire come sua sorella, morta d’AIDS e madre di una bambina malata. Ma non è così. Sta sprofondando, e con le unghie e con i denti prova ad aggrapparsi a cose, persone, storie. Vittorio rischia; se sopravvive, è perché si allontana in tempo.
Questa non è la Roma, pardon, l’Ostia, della Grande Bellezza. Questa è la periferia fredda, dove il lavoro è quasi una maledizione, dove essere onesti non porta alcuna gioia, e dove alla siringa si preferisce la coca. E quando la coca diventa “noiosa”, allora l’eroina, ma sempre dal naso, mai per endovena.
Circa un’ora e quaranta di film, e che film: dentro c’è tutto quello che manca; dentro c’è Caligari, c’è la sua visione d’insieme (non girare per tanto tempo non vuol dire “non saper più girare”; vuol dire che alcuni film resteranno solo per pochi e che il mondo, no, non li vedrà mai), c’è la sua – parola terribile, ma mai come stavolta perfetta – poetica. E c’è il sacrificio, lo sforzo, la missione di Valerio Mastandrea, qui nelle vesti di produttore (lui e Caligari s’erano conosciuti sul set de L’odore della Notte). Non essere cattivo è, senza mezzi termini, il capolavoro di Caligari: l’anello mancante, l’ultimo tassello. Il lascito di un regista a cui, purtroppo, hanno fatto fare e dire poco. E che ci poteva dare altro. Molto altro.
Non essere cattivo di Claudio Caligari: un amore fatale per il cinema di Pasolini
di Gianfranco Cercone
http://notizie.radicali.it – 14 settembre 2015
Claudio Caligari è stato un cineasta tanto affascinato dal cinema di Pasolini da esserne trascinato fino alla “perdizione”. “Perdizione” rispetto ai parametri della comune carriera di un regista: dopo un folgorante esordio nell’’83 con il film Amore tossico, è riuscito a realizzare in tutta la sua vita – probabilmente proprio a causa del cinema aspro e rigoroso che Pier Paolo Pasolini gli ha ispirato – soltanto tre film: l’ultimo dei quali, Non essere cattivo, è stato proiettato, postumo, al festival di Venezia.
I film di Pasolini che sembrano avere più “segnato” Caligari – ma nel senso che li ha interiorizzati, li ha fatti sangue del suo sangue – sono quelli ambientati tra il sottoproletariato delle borgate romane, primo fra tutti quel capolavoro che fu Accattone del ’61. (Ma in Non essere cattivo si colgono spunti di una sceneggiatura che Pasolini scrisse per il regista Franco Rossi, per il film Morte di un amico).
Nel suo ultimo film si ritrovano, come trapiantati da Accattone, i baretti squallidi ai cui tavoli passa le mattinate una piccola schiera di delinquenti o di eterni disoccupati; gli amici, mezzi morti di fame, che si riuniscono in cucina per prepararsi finalmente un piatto di pasta; i giovani che muoiono tragicamente nel mezzo di una vita violenta.Non si deve però pensare a un rifacimento di Accattone o a un suo calco esteriore. Come avviene quando una lezione è davvero assimilata, il cinema di Pasolini serve a Caligari per esprimere originalmente se stesso.
L’ambientazione del suo film del resto non è più quella delle borgate degli anni Sessanta: si svolge nei dintorni di Ostia negli anni Novanta. L’attività predominante dei piccoli delinquenti protagonisti del racconto non è più lo sfruttamento della prostituzione, ma lo spaccio di droga: polvere di cocaina, di eroina, pasticche, delle quali loro stessi sono consumatori “persi”.
È questa attività e questa dipendenza che cementa l’amicizia di vecchia data tra i due giovani protagonisti del film. Uno dei due però, dopo un’allucinazione da stupefacenti particolarmente acuta, prolungata e forse per lui, nei contenuti, rivelatrice, ha come una conversione: mette la testa a posto, rinuncia alla droga, si unisce a una donna che ha già un figlio e si decide a lavorare come muratore. Vorrebbe raddrizzare anche l’amico. Ma costui è una testa calda: un po’ gli dà ascolto; ma le tentazioni del guadagno facile, di una rivolta cieca e matta contro l’ordine costituito, e dell’autodistruzione, si rivelano più forti dei consigli dell’amico.
Non essere cattivo, come preannunciato con deliberata elementarità anche dal titolo, è un racconto morale. Sembra chiaro che l’amico muratore abbia ragione e l’amico scapestrato, che segue la china del delinquente, abbia torto. Ma non si avverte mai nel film la mistificazione di quei racconti edificanti nei quali la bontà è così perfetta da suonare finta, e la cattiveria così mostruosa da sembrare irreale anche quella. Qui la scelta di essere buoni è drammatica, sofferta, e soggetta a ricadute, perché si scontra con le costrizioni della povertà che consegue all’onestà; così come gli slittamenti verso la “cattiveria” sembrano dovuti in primo luogo a indomabili, fatali, tendenze del carattere, che però convivono con la bontà.
In ogni caso i due personaggi, per il linguaggio che usano, per le loro facce, per i loro comportamenti, risultano sempre veri. Nelle macerie, nel degrado, tra cui si muovono – culturale, prima ancora che urbanistico -, valori primari come l’amicizia, l’altruismo, l’ideale di una vita povera ma onesta, acquistano paradossalmente splendore e autenticità, una specie di purezza evangelica.